Architetto

 

ARTIGIANATO

 
 

«L’artigianato è cultura che non deve morire» scrisse Andrea Zanzotto ed in effetti l’artigianato è linfa vitale che ha subìto nel tempo molti cambiamenti e tuttora è in continuo fermento. 

 
         
 

n tempo si diceva che «Ognun ga el so santo», ricordava Sandro Zanzotto, e questo culto individuale diventava collettivo nelle Fraglie, cioè nelle associazioni che raggruppavano le varie Arti, divise secondo le categorie artigianali. Ognuna di queste si dotava di uno statuto, di una Schola, di un gonfalone, e ad ognuna la chiesa dava un santo protettore, alla cui festa tutti i membri sfilavano in processione dietro il gonfalone. 
    E così, nella ricerca del modello che ha rappresentato l’unità tra la sede abitativa e quella lavorativa, il pensiero di Toni Basso corre subito all’artigianato, per il quale il binomio casa-bottega ha esemplato più elequentemente la sintesi residenziale urbana. Potrebbe testimoniarcelo un passo del “Ritratto di un dialetto ­ el trevisan” di Alessandro Polo. Le voci del borgo erano in realtà dei suoni. Erano i colpi argentini del maniscalco che forgiava sull’incudine i feri de caval e li applicava agli zoccoli degli animali, riempiendo il sottoportico di fumo e dell’acre odore di unghia bruciata; erano quelli meno squillanti ma fitti del calderer che sembrava rispondergli dall’altra parte della strada battendo sui suoi recipienti di rame; erano i colpi più opachi e sfatti del bandéta, che batteva sulla lamiera di latta per fabbricare gorne per i capimastri suoi clienti; ed infine, proveniente dall’inizio di Via Riccati come da dietro le quinte, il tic-tac smorto del tajapièra, occupato prevalentemente a preparare lapidi per il cimitero. 
    L’amarcord di Mirko “Paciara” è elegiaco nel rievocare lo stesso suono che lacerava l’aria in quei pomeriggi di sole, lamentoso e stridente eppure proveniente da due fonti diverse: la mola su cui il paziente arrotino cercava di ridare taglio e filo a lame vetuste, e la sega elettrica che modernizzava una delle due botteghe di marangon nel fresco sottoportico dei Buranelli. 
    Così l’odore atroce delle unghie di cavallo o di musso, bruciate dal ferro rovente, non dava gran fastidio là nella bottega di maniscalco che si trovava sotto il loggiato subito dopo il ponte de San Martin, dove c’era di fianco alla centrale della Anonima Elettrica anche una selleria. 
    Né faceva specie l’odore da morto della colla caravella dei marangoni: era un’arte vederli piallare, rendere liscio il ruvido legno con il lungo soraman, una specie di maxipialla per gli allungati morali o per le grandi tavole di abete. Il lavoro dei giustaonbrele era paziente con fili di ferro, pinza e tronchese, e le stecche scartate diventavano pericolosi archi per ragazzi diventati pellirossa. 
    Anche gli inpajacareghe veloci e abilissimi erano da guardare, certamente alla pari, se non più, dei tornitori in legno nella bottega di Romano in Via Ferrarese che fabbricavano bàe e sòni. 
    Ma più di tutto affascinava Anzoletto, caegher in vicolo Spineda, che dopo la guerra era diventato cavaliere ed al quale tutti volevano bene. Batteva il duro curame quasi con grazia, sapeva tenere in bocca una incredibile quantità di brochete e non ci si rendeva conto di come potesse anche parlare, fumare, sorridere e fissare suole e tomaie con tanta bravura, pur con tutta quella ferramenta in bocca. 
    Cino Boccazzi si lamenta che in molte strade della città vecchia, dietro nuove vetrine, vive segretamente soltanto la memoria di altre botteghe e di altri mestieri che il tempo ha dissolto. Non c’è più quel deschetto di caegher pieno di scomparti in cui si ammucchiavano chiodini, spago, vaschette di pece, pezzi di tomaia e di cuoio per mettere toppe alle scarpe che oggi si buttano via appena hanno un graffio. Dov’è il vecchio sarto tutto pieno di spilli col metro attorno al collo che ci cucì i primi calzoni lunghi, o il barbiere che ci tosava come cani secondo l’uso di allora, o il libraio coi suoi banchetti in piazza San Leonardo, o il venditore di castagnaccio col suo forno nella botteguccia in cui era appesa una lercia canovaccia per uso comune di pulitura delle mani. 
    Dov’è la Marieta del giasso, Nane dei folpi, Bepi murèr, il moleta che affilava i coltelli da cucina. Dov’è tutto questo, vetrine, mestieri, parole, sentimenti? 
    Oggi naturalmente quasi tutto è cambiato, e il negozio del barbiere, per l’esempio di Cason nel ricordo dell’attività paterna, ha un’altra atmosfera più impersonale e asettica, con altri profumi ed altre luci; ma anche oggi esistono famiglie e generazioni che si sono dedicate quasi interamente alla nobile arte di Figaro. 
    Oggi naturalmente quasi tutto è cambiato, e il negozio del barbiere, per l’esempio di Cason nel ricordo dell’attività paterna, ha un’altra atmosfera più impersonale e asettica, con altri profumi ed altre luci; ma anche oggi esistono famiglie e generazioni che si sono dedicate quasi interamente alla nobile arte di Figaro. 
    «L’artigianato è cultura che non deve morire» ha detto Andrea Zanzotto, il quale ha dedicato il suo poemetto dialettale “Mistieroi” proprio ai lavoratori artigiani. Quella di conservare certe memorie dei mestieri connesse con la vita stessa della città medioevale, la necessità quasi di racchiudere in un “Cahier des mémoires” alcune tra le figure più caratteristiche dei nostri artigiani, mi rigirava per la testa da qualche anno. Già Vittorio Zacchieri, il sellaio di Via Sant’Agostino se n’era andato, il vecchio Alcide aveva abbandonato la sua fucina in vicolo Spineda, e l’ultimo ombrellaio, Elia, era stato cacciato da sotto i portici là a San Francesco.                                                                               

 

 

(continua )

 
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