|
|
|
A ore fisse, come per un rito sempre ripetuto, le numerose osterie che la Provvidenza ha disseminato nella cerchia delle antiche mura venete si riempiono di devoti dell’ombra nome tenue e insieme crepuscolare che sottintende meravigliose delizie.
«Io ho udito lodare l’osteria sopra ogni altro diletto al mondo. È un luogo che ha una certa non intesa malia, un certo incantesimo che abbaglia», scriveva Gasparo Gozzi nella Gazzetta Veneta del 19 luglio 1760. E un’antica massima sapiente afferma che bere vino con criterio è preferibile a bere acqua con vanità. Queste nostre osterie che Comisso definiva «tiepidi e armoniosi ipogei, sopravvissute da secoli, care allo scultore Arturo Martini, al pittore Gino Rossi, a tutti i chierici dell’arte.
Vi si può bere il vino dei colli, ottimo e genuino, mangiare come in famiglia baccalà o la zuppa di trippe, serviti in tavola da una ragazza rosea nelle guance e sfolgorante nello sguardo mentre il padrone accoglie ossequente sempre disposto a una conversazione adeguata alla personalità dell’ospite».
E tutto questo è la nostra Marca, la nostra città «di verzieri, di acque, di colli cilestri e di malinconia», cantata da D’Annunzio, la nostra città difesa dal fiume in cui si rispecchiano i Leoni Veneti delle Mura che da secoli e per sempre ci fanno la guardia.
Fine articolo
|
|
|