Piazza San Marco: il salotto del mondo
VENEZIA
 

Il concetto di città come opera d’arte si sviluppò nella coscienza degli europei durante il Rinascimento italiano e non vi è città italiana che esemplifichi questa idea meglio di Venezia.

 
         
 
er tutto il XVI secolo, gli architetti e urbanisti di Venezia, insieme ad altri uomini di notevole ingegno giunti da altre parti della penisola, si adoperarono a creare una città che potesse essere definita un’opera d’arte, un capolavoro incomparabile e irripetibile. Punto focale di questa città sospesa tra acqua e cielo è piazza San Marco, senz’altro la più famosa piazza del mondo. Fu creata nel 1172 dal doge Sebastiano Ziani, che ordinò le demolizioni di parecchi edifici per creare un ampio spazio davanti alla basilica; monumento unico elevato dall’arte a perenne ricordo di grandiosi avvenimenti storici. Qualcuno la definì "la prima sala della terra", mentre altri la dissero "sala del genere umano", dove hanno conversato tutti i popoli, dove l’Asia parlò all’Europa con la bocca di Marco Polo, in un’epoca in cui ancora non c’era la stampa. Alla fine del XV secolo, la piazza si presentava come la ritraeva Gentile Bellini nella sua celebre tela, La processione della Croce in piazza San Marco, divenendo il luogo più consono per le cerimonie di stato, le celebrazioni, i tornei, le feste e le cavalcate. Tra le processioni la più ricca e famosa era quella del Corpus Domini con la partecipazione del doge insieme alla Signoria, del Clero e le Scuole maggiori e minori.
Nel 1162 venne istituita la "Caccia al toro" in ricordo delle guerre dei patriarchi di Aquileia contro quelli di Grado, nella prima delle quali cadeva Ulrico, patriaca d’Aquileia, con dodici dei suoi canonici fatti prigionieri dai Veneziani. Il prezzo della libertà fu, per Ulrico, il patto umiliante di inviare ogni anno alla Repubblica, nel giovedì grasso, un toro e dodici porci per dare, con quegli animali, lo spettacolo di una zuffa e di un’uccisione che ricordasse la famosa disfatta.
 
 
Si trattava di una festa a cui assistette anche Alessandro III, durante la quale, al grido "A morte quelle bestie!" si tagliava la testa al bue e ai porci, alla presenza del doge e dei senatori. Veniva poi servito a ognuno dei patrizi un pezzo di maiale e con le orecchie di uno veniva preparata la mensa del Serenissimo; tutto il rimanente veniva dato al popolo di poveri che se li contendevano per fare una bella pentolata. Il doge Andrea Gritti, in seguito, mise fine a questa consuetudine contro i patriarchi e lasciò soltanto la festa del toro.
Nel 1364 Francesco Petrarca sedeva su un’eminente loggia di fronte alla basilica per assistere a un festeggiamento di una delle vittorie su Candia, con un torneo sulla piazza. Nella stessa loggia sotto un padiglione colorato prendeva posto il doge Lorenzo Celsi avendo alla sua destra Petrarca. Il poeta d’Arquà vide lo spettacolo per due giorni e come narra egli stesso nelle Lettere Senili "nel circuito vi era gran folla, a cui mancava il terreno, nella varietà di sesso, di età, di condizione, e i giuochi a cavallo, e i corseri magnifici, coperti di oro e di seta".
 
     
(continua ®)