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umerosi
sono i castelli e più in generale le opere architettoniche fortificate
del Friuli, momenti epifanici emblematicamente significativi nel panorama
storico architettonico della Piccola Patria, che non si configurano
solo come agguerrite macchine poliercetiche, meri arnesi
da guerra o raffinati esercizi darte ossidionale, ma che,
nidi di antichi sparvieri di nieviana memoria, vere e proprie
dimore feudali di casati castellani che al maniero legano oltre al nome
la propria storia plurisecolare, includono tra mura millenarie, importanti
testimonianze darte e di cultura.
Il Castello di Colloredo di Monte Albano, descrittoci liricamente dal
Ricardi di Netro come «un vascello di sogno vagante sullazzurrino
delle viti ramate», costituisce larchetipo di queste nostre
vetuste e nobili fabbriche.
Esso è ubicato appena otto miglia a nord di Udine, una distanza
assai ridotta, ma che ancora oggi comprende uno dei più bei paesaggi
friulani, caratterizzato da verdi declivi e torrenti che scorrono tra
boschi di castagno e campi lavorati.
Giungendovi da Udine, il Castello ci appare in forma di grosso borgo
turrito, disteso sul dorso di unaltura; questa visione suggestiva
del maniero e del paesaggio che lo circonda sembra evocare lo scenario
ancora splendido e non corrotto delle migliori pagine delle Confessioni
di un Italiano.
È qui, infatti, che Ippolito Nievo, discendente in linea femminile
dal casato dei conti di Colloredo Mels, soleva passare i suoi periodi
di svago ed è ancora qui che il poeta garibaldino scrisse, tra
il 1857 e il 1858, la sua opera immortale.
Quando il Nievo incominciò a scrivere le Confessioni il
Castello di Fratta, ove la storia si svolge, non esisteva più,
ma il giovane Ippolito conosceva profondamente la realtà feudale
del Friuli, la sua aristocrazia, la sua classe politica, le sue tradizioni,
le sue abitudini patriarcali; la conoscenza di questo mondo gli fu possibile
in quanto egli non rimase chiuso nella piacevole residenza patrizia,
ma percorse questa terra, questo piccolo compendio delluniverso,
in lungo e in largo, mescolandosi allamato popolo per capirne
la storia e lanima. Fu proprio questo patrimonio di conoscenze
il terreno di coltura di quel grande romanzo che sono le Confessioni
di un ottuagenario.
Determinante, quindi, nella stesura dellopera, fu la conoscenza
che il poeta aveva del Friuli, e in particolare di Colloredo.
Ritroviamo, infatti, molte importanti analogie tra questo maniero e
quello di Fratta, la cui famosa cucina, ad esempio, ricorda fortemente
quella del nostro Castello. Tale raffronto è possibile proprio
a partire dallanalisi della natura specifica delloriginale
ambiente castellano e soprattutto sulla scorta della magistrale descrizione
che il Nievo dà nelle Confessioni della cucina di Fratta,
la quale «era un vasto locale, dun indefinito numero di
lati molto diversi in grandezza, il quale salzava verso il cielo
come una cupola e si sprofondava dentro terra più duna
voragine: oscuro anzi nero di una fuliggine secolare, sulla quale splendevano
come tanti occhi diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde
e delle guastale appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da
enormi credenze, da armadi colossali, da tavole sterminate; e solcato
in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita
di gatti bigi e neri, che gli davano figura dun laboratorio di
streghe. Tutto ciò per la cucina. Ma nel canto più buio
e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna
ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal
crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate
da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là
un eterno gorgoglio di fagioli in mostruose pignatte, là sedente
in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure
gravi arcigne e sonnolente. Quello era il focolare e la curia domestica
dei castellani di Fratta».
Ma se la più celebre cucina della nostra letteratura rappresenta
limmagine forse più nota tra le molte figurazioni oniriche
create dalla penna del poeta garibaldino, essa non è certamente
la sola, tra queste, a richiamarci alla memoria il Castello di Colloredo.
Come possiamo, infatti, esimerci dal pensare immediatamente allantico
maniero rileggendo la nieviana descrizione di quel gran caseggiato con
torri e torricelle ove stavano il gran ponte levatoio scassinato dalla
vecchiaia e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere
tra il Lemene e il Tagliamento e ancora, come non ravvisare una possibile
trasfigurazione del nostro maniero nel grande fortilizio descritto nelle
Confessioni?
In un celebre passo di questopera Carlo Altoviti, ormai vecchio,
ricorda di non aver mai visto, nel corso dei suoi lunghi viaggi, fabbrica
che disegnasse sul terreno una più bizzarra figura, né
che avesse spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far meglio contenti
tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa dei venti: credo non
esista descrizione del Castello di Colloredo più appropriata
ed eloquente di questa.
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Il Castello di Colloredo oltre ad essere la residenza
storica nella quale visse Ippolito e a cui egli legò indissolubilmente
la sua fama, è stato e continua tuttora ad essere, un fondamentale
ed ineludibile punto nodale della cultura friulana, italiana ed europea.
Si può affermare che rappresenti ancora oggi il cuore della memoria
storica della cultura friulana.
Basti pensare che tra le sue mura, in ogni tempo, furono chiamati ad operare,
tra gli altri, artisti di fama quali Giovanni da Udine, artefice della
decorazione pittorico-stucchiva della volta del celeberrimo studiolo,
Francesco Guardi, autore di tre bellissimi capricci che adornavano
lomonima sala del maniero, oggi esposti al Metropolitan Museum di
New York, nonché Sebastiano Bombelli, Jacopo Amigoni, Pietro Longhi,
ritrattisti insigni giunti a Colloredo per immortalare i numerosi membri
del casato.
Un amore per le arti e la cultura, quello dei conti di Colloredo Mels,
attestante una profonda vocazione mecenatesca, non limitata allambito
friulano, ma anzi diffusa in tutta Europa grazie allopera preziosa
dei molti esponenti della gens che in ogni tempo si dedicarono
attivamente alle arti, sia in qualità di mecenati sia, come seguaci
delle muse.
Basti dire che nel maniero di Colloredo vissero e lavorarono, tra i tanti,
oltre allimmortale Ippolito, letterati quali Pompeo di Girolamo
I di Colloredo e ancora poeti illustri, come il famoso Hermes di Orazio
di Colloredo, forse il più noto tra gli autori di lingua friulana
ed il cugino di questi, Frà Ciro di Pers, poeta erudito e molto
probabilmente progettista dellinstauratio secentesca della
cappella del Castello.
Il maniero di Colloredo di Monte Albano, quindi, non solo rappresenta
in sé il paradigma stesso della cultura friulana ma, parallelamente
a ciò, assume la valenza, ben più grande, di centro nodale
di un complesso sistema topico-culturale che travalica i ristretti confini
della Piccola Patria.
Attraverso lopera preziosa di tutta una serie di illustri membri
della stirpe, in ogni tempo dediti al mecenatismo, gentiluomini come Giovanni
Battista di Camillo di Colloredo, veicolano cultura, mettendo in relazione
il Castello avito e la Piccola Patria con tutta una serie di realtà
europee, connettendo cioè Colloredo con tutti quei luoghi ove sono
presenti i ramificati ed estesi interessi della famiglia.
In ogni tempo, giungono così a Colloredo le più aggiornate
istanze della cultura europea, si stabilisce cioè una connessione
diretta tra il centro del sistema, il Castello e le innumerevoli unità
periferiche, le capitali di mezza Europa, i molti feudi, sparpagliati
sia nellImpero che al di fuori di questo; uno spazio vastissimo
quello in cui si muove la gens, unarea che andava dallIsola
di Malta a Vienna, da Firenze a Roma, dagli Stati della Chiesa a Mantova,
da Milano a Praga, da Venezia alla Boemia.
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