|
La leggenda nelle cui suggestioni si traducono o si evolvono gli spunti
del mito, può essere rintracciata in Friuli anche partendo dai
margini. É significativo il caso del Timavo le cui acque erompono
al confine orientale d’Italia, presso la chiesa di San Giovanni
in Tuba sorta forse sul luogo di un precedente tempio dedicato alla
Spes Augusta, in quell’area nota fin dall’antichità,
ricca di fonti termali e anche di spunti leggendari secondo i quali,
lungo i lidi prossimi affacciati all’Adriatico, sarebbero approdati
Ercole e Giasone, Orfeo e Diomede. Essi mai vi pervennero, in questo
caso, ma le leggende adombrano un fenomeno storico ben accertato: l’afflusso
di correnti di traffico e, in particolare, la “Via dell’ambra”
che dal Mediterraneo si dirigeva al baltico. Gli spunti di cui s’è
detto rispondono all’avvicendarsi di forme religiose nel tempo,
come spesso avviene: presso le fonti, al culto tributato al Timavo e
alla Spes Augusta, si sovrappose in età cristiana quello di San
Giovanni detto in Tuba, perché alla fine del mondo “dee
venir di colà uno dei quattro angeli che, con la tromba (tuba)
del Giudizio Universale, ridesteranno i morti”.
Chi risalga i percorsi alpini della regione incontra il monte Croce
Carnico, dalle cui rocce sopra Timau (Timavo) sorgono le acque del Fontanon,
“luogo di culto in epoca precristiana” come fu rilevato
e come adombra la leggenda di Sant’Ermacora vescovo aquileiese
e patrono del Friuli che liberò il Fontanon da un drago che ne
avvelenava le acque. Anche in questo caso al culto del Timavo nume delle
acque, si avvicenda quello cristiano; ivi sorse infatti una chiesa a
cui accorrevano le genti carniche e d’oltre confine, e su quella
si fonda il santuario odierno, il Crist di Timau. Antica era la piccola
ara dedicata al dio Timavo che venne alla luce a Montereale all’imbocco
della Val Cellina, al limite del Friuli a occidente; fu illustrata ma
sfortunatamente scomparve nel secolo scorso. Se lungo i confini la divinità
vigilava le acque, le città che furono, nel tempo, capoluoghi
dello spazio chiamato Friuli, Aquileia, Cividale, Udine, implicano invece
una ben diversa presenza: si tratta di Attila condottiero degli Unni
la cui storia si frantuma in numerose leggende. Figlio di una principessa
e di un cane, è orribile e crudelissimo, impareggiabile in velocità.
Attila impiega tre anni per piegare Aquileia e, alla fine, volendo anche
godersi l’incendio della grande città, risalì la
pianura e obbligò i soldati ad accumulare con gli elmi tanta
terra da formare il colle dov’è il castello di Udine: poté
così, secondo la leggenda, contemplare le fiamme che concludevano
la distruzione di Aquileia per ricominciare a percorrere la terra seminando
orrori. E’ ricorrente nei racconti che lo riguardano, il motivo
che tutto distruggeva: nei paesi, nei luoghi dov’era passato,
non cresceva più nemmeno l’erba. La regina di Cividale,
prima città del Friuli, si era rifugiata coi suoi fedeli in Val
Natisone, nella grotta di Antro dove riuscì a scoraggiare Attila
con un noto stratagemma: sacrificò l’ultimo sacco di grano
facendolo gettare sugli assedianti che se ne andarono convinti che la
regina avesse di che resistere per molto tempo ancora. aaaIn Lanza furono
respinti i Turchi nel 1478, ma le incursioni che essi replicarono lungo
tutto il Quattrocento spingendosi davvero fino agli imbocchi delle valli
occidentali, furono attribuite ad Attila che, arrestato sul Cellina
da una nebbia provvidenziale che egli credette essere mare, all’imbocco
della Val Meduna distrusse la mitica città di Ciago e i quattro
castelli che la vigilavano: Meduno, Toppo, Mizza e Solimbergo; ma prima
penetrò in Val Colvera, lungo un percorso che parte dal castello
di Maniago e che, significativamente, la tradizione chiama “strada
di Attila, strada di Napoleon, strada dei Turcs”. Nessun esercito,
fino alla guerra 1915-1918, batté quella strada che internandosi
nei monti raggiunge la Val Meduna e Attila non toccò i luoghi
dove il ciclo narrativo che lo riguarda, lo spinge e lo attesta, ma
accade a chi studia di rendersi conto che la sua vicenda storica non
ha rapporto con la sua leggenda che invece include le terre dove si
abbatterono, nei secoli, altri invasori: Ungari, Turchi, francesi e
Tedeschi che percorsero e desolarono il Friuli, ma di loro si raccontò
come di uno solo: Attila, Flagellum Dei. Forse soltanto i Longobardi
che s’insediarono a Cividale costituendovi il loro primo ducato
in Italia, che mantennero per due secoli, lasciarono un mazzo di leggende,
in parte radicate nella storia: è il caso truce di Romilda vedova
del duca Gisulfo, che aprì le porte della città al can
degli Avari che l’assediava. Ebbe in premio non le sperate nozze
ma il supplizio: finì infatti impalata. Altre leggende portano
forse il segno dei Longobardi orafi esperti, perché hanno per
argomento oggetti d’oro: la scune d’àur, ad esempio,
la culla d’oro preparata per il figlio delle regina Teodolinda
costretta a lasciare Tenzone, sotto la minaccia dei nemici, è
ancora nascosta sotto le mura della città, e neppure il terremoto
l’ha fatta riapparire. É la sorte di tutti i tesori: siano
essi caldaie di monete, oggetti anche animati, a cominciare dalla chioccia
coi dodici pulcini custodita a San Zenone presso Sequals, alla purcitute
d’aur con i suoi porcellini vagante sottoterra tra i colli di
Magagna, ai buoi con l’aratro d’oro sepolti in un campo
alle porte di Udine, sono tesori noti, splendono nella memoria, ma nessuno
li ha mai trovati. L’ambito riguardante le figure fantastiche
presenta innumerevoli racconti come nel caso delle agane, entità
sfuggenti tra acque e grotte, che si apparentano ai miti femminili di
tanta parte del mondo, ma illustrano luoghi nostrani, nel senso che
sono adattamenti locali di motivi reperibili altrove.
I racconti più tipici delle agane, sono rintracciabili sempre
tra acque e grotte, in primo luogo. Nelle Prealpi Occidentali, nella
forra profonda dove s’insinua il torrente Colvera, fiorisce un
bel mazzo di leggende intorno alle agane che sono per tre giorni donne
belle, celano però il piede caprino, e per altri tre si mutano
in salamandre. Il loro impegno prevalente è di lavare panni bianchi
che stendono poi ad asciugare e, mentre castigano chi se ne appropria,
sono generose anche di doni fatati con chi le aiuta.
|
|
Le
agane mutano aspetto e caratteri da luogo a luogo: sono lavanderis
di bianco vestite sull’ampio greto del Tagliamento, del Natisone
e d’altri torrenti e, lungo la pianura, irretiscono talvolta
gli uomini disorientandoli; diventano fate, che vivono nelle rogge
e strappano la biancheria alle lavandaie: sono spiriti di donne
morte di parto. Altrove si distinguono sempre per il motivo dell’acqua,
ma operano maleficamente tanto da essere definite streghe. Non v’è
qui spazio per le altre figure friulane del mito, che la civiltà
precipitosa del nostro tempo ha scolorato facendone sparire la poesia. |
|
|