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   A San Giovanni Evangelista (che tiene il calice in mano) fu aggiunta la barba per conferirgli un aspetto più severo.
La manomissione più grave riguardò l’immagine di San Pietro (con le chiavi a sinistra) la cui veste ed il braccio destro furono completamente alterati.
   Durante il restauro, il dipinto è stato sottoposto a tutte le operazioni necessarie per assicurargli la migliore conservazione. Per esempio, il colore, che si staccava dalla tela, è stato consolidato e fissato in modo stabile al supporto.
   La tela stessa è stata montata su un telaio che ne assicura la tensione continua anche al variare della temperatura e dell’umidità dell’ambiente.
Naturalmente sono stati rimossi i ritocchi successivi in modo da recuperare il colore originale che attualmente s’impone per la brillantezza dello smalto.
   San Giovanni Evangelista, persa la barba posticcia, sembra un giovane  adolescente. Alcuni rifacimenti, però, sono  stati conservati, tra cui ovviamente quello di San Michele Arcangelo, originale. È stato conservato anche il rifacimento di San Pietro perché la sua rimozione ha presentato degli elementi di rischio, che hanno consigliato una soluzione più prudente.

 

LA NATIVITA'

 
 

   Le parti della tela che avevano perso la vivezza del colore sono state integrate con un ritocco eseguito secondo le regole della Carta del Restauro, e cioè con il ricorso ad una tecnica che permette di riconoscerlo da vicino e con l’utilizzo di materiali inalterabili nel tempo e molto facili da rimuovere.
   La chiesa, come abbiamo detto, è stata ristruttrata varie volte. Abbiamo documenti di importanti lavori che risalgono ai primi decenni del 1600; allora la chiesa venne anche solennemente consacrata e nella pietra sacra dell’altar maggiore vennero incluse le reliquie dei santi Gennaro ed Ermete (1626). La chiesa, come abbiamo detto, è stata ristruttrata varie volte. Abbiamo documenti di importanti lavori che risalgono ai primi decenni del 1600; allora la chiesa venne anche solennemente consacrata e nella pietra sacra dell’altar maggiore vennero incluse le reliquie dei santi Gennaro ed Ermete (1626).
   I lavori più importanti e radicali furono eseguiti nel corso del 1700 e sono quelli che hanno dato alla chiesa l’aspetto che vediamo oggi, dai particolari architettonici come le paraste, i cornicioni, ecc. fino agli stucchi. Per abbellire le pareti del presbiterio, verso il 1720 si affidò al pittore Giovanni Marini l’esecuzione di due tele. Poichè il lavoro piacque, si chiese al pittore di dipingere altre due tele «della grandezza che impisca li due siti vacui nel coro» accanto alle prime due.

 

   Le opere illustrano il ciclo del Natale, con la Natività, l’Adorazione dei Magi, la  Circoncisione ed  infine la  Fuga in Egitto. L’artista eseguì delle opere di sicuro effetto scenografico.    Tuttavia, dal  punto di  vista tecnico si tratta di opere  eseguite con materiali scadenti che si sono ben presto deteriorati, tanto che già verso la fine del ’700 subirono un primo restauro ad opera dell’artista veneziano Antonio Florian, che si è pure firmato in calce all’Adorazione dei Magi «ZUANE CASTELAN E DOMENICO MION MASSERI DI QUESTA FABRICHA FECE RISTAURAR QUESTI QUADRI DA ANTONIO FLORIAN VENEZIANO L’ANNO 1794».
   In realtà, la sua  opera si ridusse a rattoppare delle  lacerazioni del tessuto e ad integrare le parti sbiadite con nuova pittura, applicata con molta sicurezza su larga parte anche della pittura originale. Lo stato delle opere era fortemente danneggiato. Il Florian non era un restauratore, e così il degrado continuò. Le tele erano addossate alle pareti e, per evitare che assorbissero umidità dai muri, fu applicata un’intercapedine di tavole di legno.    Inutilmente. Le tele si rilassarono, il colore in varie zone si distaccò e cadde. La tela, di pessima qualità, continuò a lacerarsi. Altri lavori furono eseguiti nel 1805, nel 1853 e nel 1912.

 
         
 
LA FUGA IN EGITTO
 

   Per quanto strano possa sembrare, nessuno di questi interventi può essere definito di restauro. I danni maggiori sono dovuti soprattutto alla scarsa resistenza dei materiali impiegati, in particolare alla scadente qualità del tessuto di supporto, alla forte igroscopicità delle mestiche e all’acidità dell’olio impiegato nella pittura.
   Le tele, subendo le frequenti variazioni termoigrometriche ambientali, si allentavano, e rigonfiandosi provocavano il distacco degli strati di pittura.
   Progressivamente esse si sono inacidite, ossidandosi, e, divenute sempre più fragili, hanno cominciato a lacerarsi. In alcune zone il degrado è arrivato fino alla disgregazione completa della fibra.
   Di fatto, negli interventi di riparazione si continuò a rattoppare incollando pezze di tessuto sul retro delle tele dipinte e ad aggiungere colore sopra colore per “annegare” quello che si staccava dal supporto e rischiava di cadere.
In molte zone, ove il colore era frantumato ed irregolare, furono applicati addirittura degli spessi strati di stucco, spatolato quasi fosse un intonaco in modo da inglobare il colore e livellare la superficie.

 
 
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