Il banco da lavoro delle lavandere era il lampor, una tavola di legno tenuta inclinata verso l’acqua da due traversi laterali, sui quali era fissato anche l’asse che fungeva da inginocchiatoio dove le donne si calavano per celebrare questo rito penitenziale. 
     Dunque genuflesse, chinate, protese a lavare e strizzare la roba, immergendo le mani nell’acqua che d’inverno pareva spezzasse le dita. 
    Il lampor era personale, quindi trasportabile, per questo al lavatoio pubblico le lavandere andavano con una carriola sulla quale caricavano la çesta co la roba, il lampor e magari la corda e i forconi per attrezzare uno stenditoio su qualche spazio libero e possibilmente lontano dalle polverose vie una volta tutte in terra battuta. Per le giovani, tuttavia, l’uscita di casa per «ëndar al sil» (e lo scrivo in minuscolo perché, se il Sile è il nome proprio del fiume di Treviso, el sil è a Treviso il nome di qualunque corso d’acqua che scorre nella città) era talvolta il pretesto per eludere la severa clausura domestica, se non proprio per sognati incontri o furtivi approcci, almeno per scambiare confidenze con le coetanee o far veicolare amorosi messaggi. Quindi una opportunità cercata, abilmente programmata, simulando casualità o necessità di cui le madri, passate anch’esse per questa strada, fingevano di non avvertire l’ingenua invenzione. 
    I ricordi visivi e i racconti in famiglia si sono sedimentati in una memoria che, personalmente, va a localizzarli nel Canale delle Convertite, tra Piassa del Gran e Madona Granda. Da un affresco di struggente malinconia si staccano figure e suoni sconosciuti alla distratta frettolosità del nostro andare. 
Sia benedetto il progresso che tuttavia non ci esime dal ricordo affettuoso e grato verso tutte le donne che sui lampori hanno bruciato la giovinezza, logorato la maturità, e precocemente raggiunto la vecchiaia, guadagnandosi buanse, artrosi, mal di schiena, e polmoniti con le sole ambizioni di «mandar via i fioi rincurài», «’ver la casa néta», «no dover ’ndar a carità».
    La città, che oggi sta riscoprendo la gentilezza dei fiori, restaura e infiora i vecchi lavatoi: il canto squillante dei gerani li sta trasformando in altari sui quali mi piace credere si celebri una civile liturgia di ringraziamento verso le donne trevisane, che non sono state solo gioiose e amorose ma anche laboriose.

 
 
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