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Nel febbraio del 1930 il Moro
ricevette da Balbo una lettera che lo poneva in congedo in modo oltremodo
offensivo e, dopo una prima reazione orgogliosa, fu costretto a subire
l'umiliazione per non incorrere in provvedimenti peggiori. Tale lettera, lunga
e impietosa, potrebbe indurre anche a pensare ad un malcelato sfogo di Balbo
contro un aviatore che, con la sua fama e il suo fascino, faceva ombra
all'egocentrico ministro dell'aviazione. Il carattere del gerarca fascista,
d'altronde, era noto per le sue sfuriate improvvise e, generalmente, passeggere.
Nel 1931, infatti, Balbo fu invitato alle nozze di Ferrarin e vi partecipò in
qualità di testimone, segno che c'era stata una piena riconciliazione. Negli anni Trenta iniziò per il Moro un periodo di attività di "routine", senza grandi
imprese e gloriosi successi. Nel 1935,
tuttavia, un fatto clamoroso segnò il destino di Ferrarin: sul suo idrovolante,
un S.80, dopo un volo da Forte dei Marmi a Genova, morì per un incidente in
fase d'ammaraggio Edoardo, figlio del senatore Giovanni Agnelli, direttore generale
della Fiat. Il Moro non poté
adeguatamente discolparsi di fronte al senatore e agli italiani in quanto gli
fu impedito di pubblicare o mostrare in qualsiasi maniera il resoconto
dell'inchiesta tecnica svolta sul relitto dell'incidente. I risultati indicavano
chiaramente che le norme di sicurezza prescritte dal regolamento italiano erano
inferiori rispetto a quelle di altri Paesi e, comunque, insufficienti. Dopo quel grave incidente, la Fiat impedì a Ferrarin di
continuare a svolgere la sua attività di pilota collaudatore non solo nelle
Avio Linee Italiane, società di proprietà di Agnelli, ma in tutto il territorio
italiano. Nel tentativo di ricominciare a svolgere la propria attività e di
tornare a volare, dopo ben due anni dalla disgrazia di Genova, nel 1937,
Ferrarin si recò anche da Mussolini, in visita privata alla Rocca delle
Caminate, per chiedergli un aiuto presso il senatore Agnelli, in modo da
metterlo a conoscenza almeno dei risultati dell'inchiesta. Non si sa se il duce
abbia fatto qualche passo presso il direttore della Fiat, comunque allo scoppio
del secondo conflitto mondiale l'aviatore aveva ripreso la sua attività di
collaudatore presso diverse ditte aeronautiche nazionali, in particolare alla
C.A.N.S.A di Cameri, in provincia di Novara. Fu proprio collaudando un prototipo che Arturo Ferrarin morì
a Guidonia, lasciando la moglie e i due bambini ancora piccoli. Pare che il SAI
107 avesse già fatto altre vittime. Su di esso lo stesso Ferrarin aveva
compiuto poco tempo prima un collaudo terminato con un incidente nel quale il
pilota aveva riportato alcune ferite e un oscuro presagio di morte: sentiva che
quell'aereo poteva "tradirlo" e forse anche questa insicurezza valse
a rendere fatale il volo del 18 luglio 1941. | |||