Fagagna

FABIO ASQUINI:
UN OPEROSO ILLUMINISTA

 
Viticoltore e produttore del vino Picolit
utilizzò come energia alternativa la torba e sperimentò nuovi cereali.
 
     
 

ronipote di Asquino d’Arcano Inferiore, quattrocentesco feudatario di Fagagna, Fabio Asquini nacque nell’antico borgo collinare friulano, il 29 dicembre 1726. Unico erede del casato comitale, fin da giovane s’interessò alle scienze naturali e all’economia: la mera erudizione e il vivere di rendita gli stavano stretti, sicché cominciò a gestire in maniera del tutto nuova l’ingente patrimonio familiare.
La vasta braida e i fabbricati di servizio circostanti l’edificio dominicale divennero centro di produzione di vini «da delizia», ove al vigneto specializzato a conduzione diretta si affiancavano inediti metodi di coltivazione di vitigni pregiati. Trentaduenne, il conte vendette le prime bottiglie di Picolit annata ’53 e tre anni dopo pubblicò Della maniera di piantare, allevare e condurre una vigna a pergolato e del modo di fare il vino Picolit e di schiarirlo. Quello stesso anno, profittando del coinvolgimento asburgico nella guerra dei sette anni, il Picolit entrò in competizione col Tokaj ungherese, anche grazie a un’efficiente rete commerciale e a innovativi metodi “pubblicitari”: selezionato in base alle esigenze di gusto e inviato in omaggio a molte personalità europee, fu tra i primi vini italiani a esibire un’etichetta sul turacciolo, raffigurante un castello circondato dalle parole «Picolit» e «Fagagna» e un’altra sul corpo delle bottiglie (da mezzo litro circa, in vetro soffiato di Murano), con la dicitura inquadrata «Picolit del Friuli», nera per il tipo «più spiritoso o meno abboccato», rossa per quello «più dolce ossia più abboccato», varietà poi diffuse dalla vendita delle barbatelle.
Frattanto, insieme a Ludovico Ottelio e Antonio Zanon, nel 1762, il conte fondò a Udine la Società d’agricoltura pratica, annessa all’Accademia del capoluogo friulano: «segretario perpetuo» per diciotto anni, nella seconda associazione agraria d’Italia (prima a istituire premi per la soluzione di «quesiti georgici») trovò un utile veicolo per le sue idee, quantunque secondario rispetto al centro sperimentale di Fagagna, ove con illuministica fiducia ideava “riforme” capaci di ottimizzare la produzione senza scalfire lo status quo.
Nel 1764 ricavò dai Viaggi per l’Italia, Francia e Germania di Niccolò Madrisio (1718) la notizia delle «turbie» esistenti «in alcuni beni paludosi di Fagagna di ragion della casa Asquina»: in effetti grandi quantità del combustibile a basso potere calorifico giacevano nei terreni palustri a nord dell’abitato (la sua «Palude Meotide») acquistati nel Seicento dal nonno. Avendo approfondito l’argomento grazie ai dati raccolti da Zanon, il conte comunicò le sue prime deduzioni sul “Giornale d’Italia” del 16 marzo 1765 (è invece del 1770 il Discorso sopra la scoperta e gli usi della torba in mancanza de’ boschi e del legname), inaugurando una lunga serie di scritti sullo spugnoso carbon fossile e sulla localizzazione di nuove “miniere”. Valutatone il basso costo rispetto al legname, dopo averla inizialmente destinata ad usi domestici, Asquini ne decise l’estrazione sistematica per alimentare forni di cottura per laterizi.
La torba veniva impiegata per la cottura di calcina e mattoni di diverse fogge e dimensioni, talora bollati a imitazione di quelli aquileiesi. In grado di produrre circa ottantamila pezzi per volta con attrezzature all’avanguardia, esentata dalle tasse per l’uso di un’energia alternativa e offrendo prezzi concorrenziali, essa conquistò subito il mercato friulano, ma, pur fornendo grandi committenti udinesi, mai poté sfruttare appieno le proprie enormi potenzialità, causa la penuria di manodopera e un mercato forzatamente limitato all’area circostante il nucleo produttivo.
Nel 1780 Asquini avviò pure la produzione sperimentale di maioliche, stufe e «vasellami di terra ad usi bassi ed ordinari», in una piccola fornace denominata alla latina figulina. Con il trasferimento in una casa del paese, nell’82 fu ufficializzata la produzione seriale di stoviglie e altre ceramiche: ma, pur ottenendo quattro anni dopo l’esenzione decennale dalla «tansa», la «fabbrica privilegiata» ebbe una resa insufficiente e alla fine fu chiusa (1800) a causa dei costi eccessivi di impianti, attrezzature, materie prime e maestranze specializzate, nonché dell’alta percentuale di prodotti invenduti, dovuta alla scarsa conoscenza del mercato.
Eppure la “felice illusione” della torba fu certo un contributo alla «pubblica felicità» del «fondatore dell’arte torbaria in Friuli», così come il redditizio commercio vitivinicolo, che, colpito dall’incostante qualità del prodotto e dallo scardinamento dell’intricato sistema di relazioni su cui si fondava, dal 1792 vide calare le vendite, che si esaurirono (1811) dopo aver consentito per decenni il finanziamento di «intraprese» che attirarono a Fagagna numerosi studiosi e amministratori, che additarono le opere di Asquini come esempi da imitare.

 

Chiesetta di S. Michele in castello e torre campanaria

Palazzo Asquini nel centro di Fagagna

La notevole “apertura” costrinse il conte addirittura ad abbandonare la Società d’agricoltura pratica fra critiche e incomprensioni, nel 1780. D’altronde, egli non si accontentò di rinnovare il “piccolo mondo” collinare: intrattenne scambi epistolari con numerose personalità; si aggiornò sulle novità librarie scovate dai suoi “agenti” veneziani (Zanon fino al 1770); sperimentò nuovi cereali e promosse la sericoltura, la coltivazione della patata e l’impiego della marna come fertilizzante; s’interessò di meteorologia e infine – riscoperta la fede – avviò la produzione a fini umanitari di un antipiretico basato sul «santonico», più economico ed efficace della china.
Alla veneranda età di novantadue anni, Asquini morì nel 1818 nella casa medievale udinese di borgo San Bartolomeo acquistata mezzo secolo prima e rimaneggiata per necessità “scientifiche”. Sepolto nella chiesa fagagnese di Sant’Antonio, sottratta al demanio napoleonico e riconsacrata proprio grazie al suo intervento, egli rimane il tipico rappresentante dell’illuminismo, pur avendo operato in quella terra piuttosto appartata che fu il Friuli settecentesco.