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dallalto piazzale del castello di Udine, insegue
la linea dei colli morenici che declinano dalle Prealpi
al piano del Friuli, si affaccia non solo al quadro fisico,
ma alla storia di questa terra, immediatamente, per il
fatto che il colle è opera di Attila che lo fece
erigere dai suoi soldati (un elmo di terra per volta,
a lume di leggenda), per godersi dallalto Aquileia
distrutta che ardeva. Più tardi sorse il castello,
poi i palazzi patriarcali.
Da qui è possibile inseguire i secoli che, dal
declino dellImpero di Roma, sono segnati da sconvolgimenti,
invasioni e guerre, da terremoti che divaricano le stagioni
della storia di questa terra, lungo le quali si imposta
la vicenda dei castelli, già in età longobarda,
sotto il dominio dei franchi, e soprattutto con linsediarsi
dei patriarchi di Aquileia, una signoria plurisecolare
che diede al Friuli ordinamento feudale. Il prestigio
delle casate che furono investite dei feudi, poté
rivelarsi anche attraverso le dimore che, nel tempo, vennero
erette a sommo dei colli o sulle alture, in posizione
eminente.
A chi percorra lautostrada che, da pochi anni, risalendo
la pianura, si dirige al confine, non sfugge la vista
del castello di Colloredo di Monte Albano, lesionato gravemente
dal terremoto del 1976, che devastò gran parte
della regione rinnovando le vicende del 1348 e del 1511,
allorché ai danni del sisma si aggiunsero le violenze
delle fazioni di nobiltà e popolo in lotta.
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Lampio
complesso del maniero di Colloredo è oggi in parte
ricostruito (benché privo delle preziose opere
di cui la potente famiglia laveva nei secoli arricchito);
sullalta torre portaia, 1orologio ha ripreso
a scandire il tempo, quasi a tenere viva la figura di
Ippolito Nievo che vi trascorse lunghe stagioni e scrisse,
trasfigurando i tratti del castello e di chi labitava,
nel più celebre dei suoi romanzi, Le confessioni
di un Italiano. E modulò un canto fermo per il
Friuli nello stile tra impetuoso e scabro che lo affida,
perennemente giovane, alla storia delle lettere italiane
e a una sorta di leggenda che elude lepilogo tragico
del suo vivere.
Nievo era imparentato per via materna con i conti di Colloredo,
famiglia che nei secoli si illustrò di personaggi
notevoli e duno in particolare che lungo il Seicento,
affidò la sua vena di poesia intensa ed estrosa
al parlare friulano inaugurando, col pregevole canzoniere,
una stagione ancora oggi viva.
Seguendo, da Colloredo di Monte Albano, londa dei
colli verso occidente, le alture impongono o celano i
manieri o i resti di quelli che furono, intorno ai quali,
se fa luce la storia li rinverdisce, a suo modo, la leggenda
che affianca o accomuna i tempi e le sorti, spesso fortemente
analoghe, di ogni castello collegando, ad esempio, luno
allaltro con un sistema fantasioso di gallerie:
una si diparte dai sotterranei del castello di Udine,
raggiunge la porta di Villalta e procede alla volta di
quel maniero, alle cui mura, ancora oggi turrite, si affacciava
unagana (figura mitica di fata legata solitamente
alle acque) e usciva a lavarsi i piedi tal sfuéi,
nello stagno del piazzale.
La composta immagine che il castello presenta a chi oggi
lo visita, non suggerisce alcun nefasto, mentre esso si
illustra o
si oscura per vicende che hanno i signori
come protagonisti di storie truci, di inganni e di delitti.
Rientrano nella leggenda di questo come dogni altro
maniero, i casi delle violenze operate contro creature
inermi, donne rapite ed eliminate, non solo estranee,
ma in molti casi imparentate con il signore che le sopprimeva,
quando si rendevano o erano ritenute scomode. Villalta
presenta più dun caso crudele, ma forse è
più nota la storia di Ginevra di Strassoldo; mentre
entrava sposa nella dimora di Odorico di Villalta, Federico
di Cuccana che gliela contendeva, assalì il corteo
nuziale e ghermì Ginevra. Quando lo sposo, molto
tempo dopo, poté riappropriarsi del suo castello,
la trovò non viva, ma trasformata in statua di
pietra. Così la leggenda sfuma la crudeltà
della fine tragica.
Non lontano dai luoghi ricordati, verso ponente, dove
avvallano morbidamente i colli, si allarga la cinta murata
del castello dei signori dArcano; di stirpe tra
le più antiche e potenti, ebbero parte, con altri,
alla congiura intesa a sopprimere il patriarca Bertrando
di San Genesio, colpevole di limitare i privilegi dei
feudatari. La leggenda attribuì la responsabilità
del delitto appunto ai dArcano, ai Caporiacco e
agli Spilimbergo, che il prelato ferito avrebbe maledetto
trascinandosi a morire fino alla chiesetta di San Nicolò
della Richinvelda prossima al guado del Tagliamento al
quale egli si dirigeva.
Ad Arcano poi, uno dei signori fece sparire occultamente
la consorte Todeschina di Prampero. per punirla dessergli
stata infedele, ma si raccontava, forse più verosimilmente,
per appropriarsi della ricca dote.
Riprendendo il cammino dei colli, quello di Fagagna si
affaccia al piano nella posizione più eminente,
ma del castello millenario (come Udine e Buja) serba soltanto
una torre, ruderi di mura e un singolare tesoro la cui
leggenda nutrì a lungo le illusioni della gente
di quei luoghi: nella galleria che, provenendo da Villalta
procede alla volta di Caporiacco e più innanzi
fino a Ragogna, stava sepolta e si muoveva così
credevano une purcitute daur cui purcituz
una maialina doro con i suoi porcellini.
Nessuno lha mai trovata, come mai sono apparse altre
gallerie che collegherebbero in rete sotterranea i castelli
le cui vicende, quando siano proposte in chiave di leggenda,
rispondono alla natura mutevole dei racconti affidati
alloralità, con un tratto specifico ed è
che la leggenda, a differenza della fiaba, sfuma o incide
o modifica un dato qualsiasi che parte dal vero, da un
rudere come da una memoria storica, obbligando alla ricerca
chi se ne interessa.
Proprio a Ragogna affacciata al passo della Tabina, dove
il Tagliamento si apre a diffondere le acque in piano,
sarebbe vissuto prigioniero il longobardo Ansfrid, accecato
per larbitrio di usurpazione commesso nei confronti
di Rodoaldo duca legittimo del Friuli. Così informa
lo storico Paolo Diacono autore della Historia Langobardorum.
La leggenda invece popola i resti di quel castello di
fantasmi crudeli e nefasti: riuscivano a spaventare tanto
da ridurre a morte chi osava avvicinarsi. Il parroco del
vicino paese di San Pietro di Ragogna saliva, la sera
dei morti, a benedire il luogo al fine di placare quelle
presenze inquiete.
La vita dei castelli, a tracciarne un percorso ideale
fissando i tempi e i momenti chiave, presenta come
sè accennato analogie, tanto che si
può parlare di una leggenda del castello, dalla
fondazione alla distruzione, ma in realtà la vicenda
dognuno non si conclude con quello che pare essere
lepilogo.
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Nella
mentalità popolare, il castello sopravvive a sé
soprattutto attraverso i motivi che si enucleano nel fantasma
di cui sè appena proposto un esempio, e del tesoro
che raramente è animato come la purcitute daur,
di cui sè detto; solitamente non si tratta di tesori
animati, bensì di un deposito di monete, caldaia o cassetta,
magari vigilato da unanima in pena, ma ricercato quasi
sempre invano.
A Buja, sede antica di un maniero ampio e ben munito, tra altri
resti, vè il ciscjelàt cosiddetto, nel cui
ambito si apriva un pozzo dove sarebbe stato sepolto un tesoro
inconsueto, la cjadène daur, la catena doro
con la quale i signori, nelle festività, cingevano le
mura del castello o soltanto la torate di miez, la torre centrale.
Piace concludere con lo splendore del singolare gioiello buiese
gli spunti con i quali la tradizione illustra, in prospettiva
leggendaria, le storie che rinverdiscono i castelli posti lungo
la fascia dei colli morenici che si incurvano a coronare il
piano del Friuli.
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