Viaggio nella storia
I CASTELLI
Massicci e squadrati, eleganti e maestosi,
i complessi dominano dall’alto,
a perpetua memoria di un passato glorioso.
All’entrata della Val di Non attraverso il passo della Rocchetta, più alto di circa 350 metri a destra di chi sale la valle, c’è un dosso dove una volta sorgeva un maniero chiamato Castello delle Visioni; poche volte un nome è così appropriato: dal dosso delle Visioni si può spaziare a sud sulla Piana Rotaliana e sulla Valle dell’Adige fino oltre Trento, a nord si distende e si può ammirare la Val di Non fino al Castello d’Altaguardia.
Il Castello delle Visioni fu costruito dai Tono, nome originario degli attuali conti Thun, nel 1199 dopo un’investitura vescovile del dosso medesimo; sorse lì a presidio della strada-sentiero che da Trento attraverso Mezzocorona portava in Valle di Non. Venduto a Mainardo conte del Tirolo, perse d’importanza con la nuova più agevole viabilità in basso attraverso il passo della Rocchetta; venne quindi abbandonato e la torre rimasta crollò alla fine dell’Ottocento durante un uragano.
Sempre in sinistra del Noce già nel XIII secolo i signori di Tono vennero in possesso del Castello Belvesino. Posto su un ameno colle, nel corso dei secoli venne rimaneggiato, ricostruito e ingrandito. Col tempo perse il nome di Belvesino e assunse quello di Castel Thun. Qui visse e prosperò la famiglia Thun che con alleanze matrimoniali e acquisizioni divenne molto ricca e potente estendendo i suoi possessi sulla maggior parte dei castelli anauni: Bragher, San Pietro, Altaguardia, Mostizzolo, Denno, Sant’Ippolito, Cagnò, Castelfondo, Rumo, Mocenigo e Zoccolo; la famiglia si espanse anche fuori dei confini della Valle e nel secolo XVII, durante la guerra dei Trent’anni acquisì vastissime proprietà in Boemia.
Nel XVIII secolo la famiglia Thun contò tra i suoi membri vescovi a Seckau, Passavia, Salisburgo e Trento. Nel 1858 il conte Matteo accolse splendidamente nel suo maniero già Belvesino l’arciduca d’Austria Carlo Lodovico e l’arciduchessa Margherita, giunti al castello con un corteo di carrozze tirate da 24 cavalli bianchi. Matteo, figlio di una contessa Martinengo di Brescia fu di sentimenti italiani e, membro della Giovane Italia, finanziò Garibaldi con sette milioni di fiorini; tale enorme spesa provocò un grave dissesto finanziario della sua famiglia ed egli fu costretto a vendere molti dei suoi beni terreni e oggetti preziosi; grave per la testimonianza storica locale, fu la vendita a un cugino Thun di Boemia di gran parte del ricchissimo archivio del Castello, che venne così trasferito a Tetschen sull’Elba.
Nel 1926 il Castello passò dal ramo Thun di Castel Thun a un cugino del ramo di Tetschen. Da qualche anno l’immobile è stato ceduto alla Provincia di Trento che lo sta restaurando ed è in previsione l’apertura al pubblico dello storico edificio.
Castel Cles
Il Castello sorgeva a presidio della via romana chiamata anche via del Ferro, quella stessa che passa sotto Castel Valer. Esso è posto a nord est del paese di Cles e mentre una volta dominava il vallone del Noce ora si specchia nel lago di Cles nato nei primi anni 50 del secolo scorso a seguito di uno sbarramento a scopo idroelettrico del corso d’acqua.
Signori del Castello furono sempre e sono tuttora i Cles le cui prime notizie risalgono a un Vitale di Clesio che nel 1124 funge da testimonio per la stesura dell’atto con cui il Vescovo di Trento Altemanno permette agli abitanti di Riva di costruire un Castello.
Nel 1188 Arpone, figlio di Arpone di Cles vende al vescovo Alberto i suo possessi in Val Venosta (curia di Naturno) che andavano dalla Töll a Malles.
Sopra il paese di Cles, oltre il Maso di San Vito, si trova un castellaccio su un insediamento preromano ma con resti di mura medioevali. Gli storiografi ritengono che questa fosse la sede originaria della famiglia Cles la quale in seguito si trasferì sul colle dove ora sorge il Castello di Cles; non è improbabile che su quel dosso esistesse già una torre a guardia della antica strada che lì passava scendendo al Noce che attraverso un ponte di legno congiungeva le due sponde della Valle di Non. Purtroppo le acque del lago hanno sommerso la parte inferiore della strada che proprio in quel tratto era lastricata con pietre rotondeggianti, tipico esempio di viabilità romana.
Nel Castello vivevano due linee di Cles, quella dei Bertoldo e quella degli Arponi. Nel 1447 divenne unico proprietario del Castello Giorgio del ramo degli Arponi. Probabilmente fu lui il protagonista della avventura occorsa a un Cles presso il rio di San Romedio: inseguito da numerosi nemici arrivato sulla sponda di un precipizio sul cui fondo scorreva il torrentello, spronò la sua cavalcatura, una mula, la quale con un prodigioso balzo toccò la sponda opposta salvando la vita al proprio padrone; in riconoscenza Giorgio fece fare per la sua cavalcatura i ferri, il morso e tutte le parti metalliche del suo equipaggiamento in oro e con tale prezioso tesoro la mula venne a suo tempo sepolta.
Il milite Giorgio fece poi edificare nel vicino santuario di San Romedio una cappella votiva: ringraziamento per il miracoloso salvamento di Giorgio e di sua moglie Margherita Thun si possono ancora oggi ammirare le immagini in un piccolo affresco che li ritrae affacciati alla finestra del loro palazzo di Cles, mentre sul davanzale sono appollaiati due uccelli rapaci, fedeli compagni di caccia del nobile milite. L’affresco, protetto dal piano di calpestio in pietra del poggiolo che adorna l’edificio, si trova sulla facciata di quello che oggi viene chiamato Palazzo Assessorile e che allora apparteneva alla famiglia Cles.
Il personaggio che diede maggior lustro ai Cles fu Bernardo, figlio di Aliprando, figlio di Giorgio. Nato nel Castello nel 1485 studiò a Verona e frequentò l’università a Bologna. Nel 1514 divenne principe vescovo di Trento; egli svolse una notevole attività per gli Asburgo, prima per Carlo V poi per Ferdinando I, divenendone Cancelliere Supremo e Presidente del Consiglio Segreto. Egli ebbe gravi problemi nel 1525, durante la guerra dei contadini. quando abbandonò Trento rifugiandosi nella rocca di Riva. Bernardo svolse una notevole attività in seguito all’eresia luterana e si adoperò per preparare il Concilio (1545-1563) che si svolse a Trento, dopo la sua morte, avvenuta nel 1539. Malgrado i suoi gravosi impegni nella politica europea, svolse un’intensa opera anche nel Principato facendo costruire o ricostruire chiese (tra esse: Santa Maria Maggiore a Trento, l’arcipretale di Civezzano e la chiesa di Santa Maria Assunta a Cles), facendo raccogliere i documenti riguardanti i diritti e le infeudazioni del Principato (Codice Clesiano) dal XIV secolo in poi, facendo riordinare e integrare la legislazione del Principato (Statuti Clesiani). Notevolissimo il suo impegno per la trasformazione urbanistica di Trento: “trovò una città di legno la lasciò di pietra”.
Come Principe Vescovo, accanto alla vecchia dimora vescovile fece costruire nel Castello del Buonconsiglio una nuova residenza in stile rinascimentale chiamata «Magno Palazzo». A seguito di un grave incendio, scoppiato nel Castello di Cles appartenente alla sua famiglia, Bernardo dovette anche preoccuparsi della sua ricostruzione, come ricorda una lapide in pietra, infissa nel muro di cinta del cortile (1537).
Nel 1542 un altro incendio obbligò Aliprando, nipote del Cardinale, a ricostruire il Castello da poco rifatto. Nella ricostruzione del 1537 vennero demolita l’antica torre che sembra fosse al centro del cortile e altre costruzioni che si stringevano attorno ad essa. Al castello si cercò di dare una forma regolare di impronta rinascimentale con un lungo corpo sud-nord tra due torri e un’ala più breve a nord, racchiusa tra la torre nord e una terza torre sita a est.
Un nuovo incendio, scoppiato il giorno di San Michele, il 29 settembre 1825, devastò l’ala est-ovest costringendo i Cles a demolirla assieme alla torre est. Tale parte del castello non venne mai ricostruita.
Dopo la morte del Vescovo Bernardo la famiglia declinò. Nel 1609 Aliprando Ramperto per ordine dell’Imperatore fu rinchiuso per tre giorni nella prigione del proprio Castello di Cles come punizione per la sua prodigalità; egli donò alla Chiesa di Cles la grande campana tuttora esistente ma a causa della sua interdizione, seguita alla condanna per prodigalità, egli non riuscì a completare il pagamento dell’opera per cui dovette intervenire la comunità accendendo un debito garantito da un bosco comunale.
Nel 1727 Bartolomeo Cles canonico di Passavia donò alla Chiesa di Cles preziosi arredi sacri d’argento del peso complessivo di 79 chili; per garantirsi che l’argenteria rimanesse nella Chiesa di S. Maria Assunta, il donatore ottenne dal Papa Benedetto XIII una bolla di scomunica contro chi l’avesse da lì rimossa.
L’accesso al cortile del Castello si raggiunge salendo il colle per una stradina, fiancheggiata da mura merlate con feritoie passando attraverso quattro archi successivi, una volta sbarrati da altrettanti portoni. Sopra il quarto arco fa bella mostra di sé una lapide con la data 1597, quattro lettere scolpite (A R C C), Aliprando Ramperto Castri Clesii e i due leoni rampanti dello stemma clesiano.
Imponente è la facciata est del Castello che dà sul cortile; vi sono due ordini di dieci finestre e un massiccio portone di concezione classica; sotto la gronda corrono finestre ad occhio e feritoie. Subito sotto c’è una decorazione affrescata, composta da leoni passanti e da busti di imperatori romani e germanici.
Più in basso un fascione con putti che lottano con i leoni, leopardi e reggono gli stemmi dei cardinali Madruzzo e Clesio. Al centro della facciata putti che sostengono gli stemmi Cles e Wolkenstein.
Autore degli affreschi è ritenuto Marcello Fogolino artista ingaggiato dal Clesio per decorare il Magno Palazzo di Trento, ma che lavorò anche a Cles sia nel palazzo di Ildebrando, chiamato oggi Palazzo Assessorile, sia nel Castello.
Uno scalone in pietra porta al salone del primo piano. Notevole il soffitto a cassettoni del Cinquecento ornato con pettenelle dipinte con scene agresti e mitologiche alternate a stemmi Cles e Wolkenstein.
Il secondo piano non è abitabile, ma una saletta che guarda sul cortile è decorata con otto scene tratte dalle Metamorfosi di Ovidio attribuite anch’esse al Fogolino.
Castello di Sporo Rovina
Lungo la via romana che da Spor Minore porta a Cavedago, Andalo e Molveno e attraverso il Banale e le Giudicarie nel bresciano, un po’ sopra Spor Minore, sorgeva un Castello chiamato Sporo Rovina; attualmente rimane solo un mozzicone dell’imponente torre, pentagonale esternamente ma quadrata all’interno, con mura di pietre squadrate dello spessore di due metri: fortunatamente la torre è in fase di rifacimento per opera della Provincia di Trento.
Nel XII secolo il maniero era custodito da una famiglia locale, vassalla dei conti di Appiano. Walterio di Spur fu presente alla rinuncia al Vescovo di Trento Alberto, da parte dei conti di Appiano dei castelli di Arsio, Wolvestein, Montereale e della Corte di Romeno (luglio 1185). Mamelino di Spur, assieme a quelli di Thun di Inon di Flavon e di Rumo, fu assunto a far parte del IV drappello che avrebbe dovuto accompagnare a Roma l’imperatore Enrico VI (1190). Nel 1230 il conte di Appiano vendette al Principe Vescovo di Trento molti possedimenti che egli aveva nelle Giudicarie e in Val di Non; tra questi il castello di Sporo. Nella seconda metà del secolo tredicesimo la originaria famiglia di Sporo scompare dalla valle di Non e sembra sia passata a Parcines in Val Venosta; il castello e la giurisdizione di Sporo passarono non si sa come al conte Mainardo II del Tirolo. Nel 1312 Volmaro di Burgstall amico e favorito del re Enrico di Boemia conte del Tirolo, ottenne dal Conte il capitanato del Castello, insediandovisi e assumendo lo stemma della vecchia famiglia (leone rosso in campo d’argento) nonché il nome della vecchia famiglia che tedeschizzò in Spaur. Volmaro, abile diplomatico e buon guerriero, acquisì negli anni numerosi feudi (dei castelli delle Visioni, di Rattenberg, della Rocchetta, che egli costruì e di Flavon), ottenne la giurisdizione di Fai e ricoprì la carica di Burgravio del Tirolo; secondo lo storico Desiderio Reich egli ebbe una parte specialissima nel combinare il secondo matrimonio di Margherita del Tirolo con Lodovico di Brandeburgo. Dopo qualche tempo Volmaro cadde in disgrazia presso Lodovico il Bavaro il quale inviò contro di lui il duca Corrado di Teck maresciallo del Tirolo; il Burgstall si rinchiuse nel Castello di Sporo, ma dopo un assedio che durò dal luglio al settembre 1342, egli devette capitolare. Preso prigioniero egli venne rinchiuso nel castello di Strassberg presso Vipiteno dove morì l’anno dopo. I figli riuscirono ad ottenere la restituzione di gran parte dei feudi paterni, compreso il Castello di Sporo Rovina. Uno dei nipoti di Volmaro, Pietro, ereditò lo spirito intraprendente e battagliero del nonno e, tra la fine del tredicesimo e i primi anni del quattordicesimo secolo, divenne il più potente dinasta della Valle di Non; fu amico del Vescovo di Trento Giorgio di Liechtenstein che ospitò a lungo nel Castello di Sporo; addirittura il Vescovo morì nel Castello e si sparse la diceria, non fondata secondo gli storiografi, che fosse stato avvelenato da Pietro.
A proposito della permanenza del Vescovo nel Castello di Sporo nacque una curiosa leggenda. I contadini dei vicini paesi di Flavon, Terres e Cunevo ritenendo che il vescovo Giorgio vi fosse tenuto prigioniero, si avvicinarono al Castello con un carro recante alcune botticelle di vino; fingendo un incidente le preziose botti scivolarono per terra e per rimettere in sesto il carro e il suo carico venne chiesto l’aiuto delle guardie del Castello; ovviamente il provvido aiuto venne ricompensato con una buona bevuta, ma quando gli armigeri furono ubriachi il Vescovo venne liberato; in ricompensa dell’aiuto, il vescovo donò alla chiesa di Flavon una notevolissima croce d’argento dorato che porta due scudetti smaltati con gli stemmi di Trento e della famiglia Liechtenstein.
La leggenda della liberazione del Vescovo non ha fondamento storico, però la preziosa croce d’argento del peso di circa 25 libbre venne donata alla chiesa di Flavon, indubbiamente in segno di riconoscenza di qualche aiuto prestato da quella comunità al principe vescovo Giorgio. La croce esiste tuttora e viene conservata nel museo Diocesano di Trento.
Castel Valer
Il nome deriva probabilmente dal patrono della cappella del Castello dedicata a San Valerio. La parte più antica è senza dubbio la torre, massiccia e a pianta ottagonale, in blocchi squadrati di porfido e granito; è una costruzione romanica, anche se potrebbe esser sorta su un edificio più antico: nei pressi passa infatti una strada detta romana che congiunge Cles, Tassullo, Nanno e Flavon; inoltre, sul colle del Castello vennero rinvenuti oggetti romani e barbarici. Castel Valer è nominato la prima volta nel 1211 e apparteneva ai conti d’Appiano. Passato ai conti di Ultimo, nella seconda metà del Duecento venne espugnato da Ulrico I di Coredo, fautore della politica di Mainardo II del Tirolo. Passato nel 1303 ai conti del Tirolo, dopo due infeudazioni a Conrad von Schönna e un’altra a Federico von Greifenstein, divenne feudo degli Spaur. L’Ausserer, storico nato a Senale in Val di Non, dichiara nel suo libro Der Adel des Nonsberg di non essere riuscito a trovare quando Valer passò agli Spaur, ma afferma che all’inizio del XV secolo il Castello è già in mano a Pietro Spaur; da allora il Castello rimase sempre alla famiglia.
Il complesso è composto dalla massiccia torre attorno a cui si stringono il castello di sotto e il più recente castello di sopra: tra i due edifici si snoda una stradina selciata che stretta tra le alte mura ferrigne dei due Castelli dà l’impressione di essere entrati in un borgo medioevale. Nella struttura, elementi romanici e gotici si alternano ad altri di impronta cinquecentesca; da ricordare all’interno l’appartamento “madruzziano” – costruito dopo che Ulrico Spaur prese in sposa Caterina Madruzzo, sorella del cardinale Cristoforo Madruzzo, famoso personaggio del Concilio di Trento – e la sala degli stemmi, che riporta anche lo stemma degli Spaur di Valer. La chiesetta di San Valerio è un fabbricato tardo gotico. Consacrata nel 1473 è decorata all’interno da affreschi di Giovanni e Battista Baschenis; le varie raffigurazioni ricoprono ogni spazio della parte absidale. C’è la Crocifissione con San Giorgio a lato e il Padre Eterno sopra la finestra; sulla sinistra San Valerio con i santi Fabiano e Sebastiano, di fronte i santi Cristoforo, Vigilio e Romedio, poi i dodici apostoli, i profeti e l’Annunciazione. Nella navata altri santi e un’adorazione dei Magi. Il Morassi data gli affreschi al 1496.