"Modello Friuli"
 
 
RICOSTRUZIONE E SVILUPPO
 
 
La recente storia friulana del post-terremoto
costituisce un esempio economico in
un quadro di praticata sussidiarietà istituzionale.
 
 
 
 
Il sei maggio 2006 saranno passati trent’anni dall’evento sismico che ha segnato così profondamente gli abitanti del Friuli Venezia Giulia. Erano trascorse da poco le ore 21 di quel tiepido giorno di primavera, quando la terra liberò una gigantesca quantità di energia accumulata nel tempo. Per un interminabile minuto, la scossa, ondulatoria e sussultoria, si propagò in superficie, distintamente percepita dai Paesi di mezza Europa, producendo in vicinanza dell’epicentro i suoi devastanti effetti. Un centinaio di Comuni coinvolti per una superficie interessata di oltre 4.800 Kmq., 100.000 persone senza tetto, oltre 32.000 abitazioni distrutte, 150.000 danneggiate e soprattutto: 989 morti e moltissimi feriti. Allo sbigottimento e alla disperazione iniziale, seguì una sempre più organizzata risposta, da parte della popolazione, per fronteggiare la drammatica emergenza, aiutati in questo immane sforzo dall’Esercito, allora così massicciamente presente sul territorio regionale e dagli interventi dettati dalla solidarietà nazionale e internazionale. Il famoso “fasin di besoi” (facciamo da soli), scritto sulle rovine dei vari centri colpiti e urlato dai terremotati organizzati a monito da eventuali strumentalizzazioni, mirava anche ad organizzare il post-terremoto con logiche molto diverse, se non opposte, ad alcuni pessimi esempi di ricostruzione sparsi per il mondo. La gelosa autonomia rivendicata dalla popolazione colpita, prima di affermarsi sul campo, dovette superare una seconda e più demoralizzante emergenza, dovuta alle repliche sismiche del mese di settembre dello stesso anno; repliche che causarono lo spostamento forzato dei senzatetto nelle località turistiche dell’Alto Adriatico. Nella primavera del 1977 tutti gli sfollati furono fatti rientrare nei propri paesi ad occupare gli alloggi provvisori: 26.000 prefabbricati installati in 350 villaggi attrezzati, in aree appositamente acquisite e urbanizzate, capaci di ospitare oltre 70.000 persone. Superata così l’emergenza abitativa si poteva con maggiore consapevolezza impostare la ricostruzione, attivando il trasferimento delle deleghe dallo Stato alla Regione Autonoma a da quest’ultima agli Enti Locali e rovesciando le logiche fino allora seguite, cercando di coniugare il processo di riedificazione delle strutture abitative e produttive con la rinascita e lo sviluppo economico. Andava elaborato un “corpus legislativo”, nazionale e regionale che oltre a trasferire risorse finanziarie certe, indicasse con chiarezza compiti e responsabilità, dal “centro” alla “periferia”, del sistema istituzionale. Un insieme normativo da cui derivassero come prioritari gli interventi sul sistema economico- produttivo e in particolare puntassero al ripristino dei 18.000 posti di lavoro “persi” nell’industria a causa del sisma. È forse stata questa una delle principali scelte strategiche che hanno permesso di sperimentare un “modello” di ricostruzione alternativo, più vicino agli interessi della popolazione locale e al rafforzamento di un processo di sviluppo industriale del territorio ancora assai fragile, avviatosi faticosamente negli anni ‘60 e ’70, con molto ritardo rispetto ad altre regioni del nord d’Italia. La “scommessa”, sicuramente vinta, del ripristino dei posti di lavoro ha consentito alle varie aziende operanti nel territorio, sia agricole, commerciali, artigianali e alle poche ma già affermate industrie di perseguire piani di sviluppo, concentrando gli sforzi ed attuando “progetti aziendali” che in situazioni normali si
sarebbero realizzati in un tempo molto più lungo. Ma la ricostruzione non poteva realmente compiersi senza una puntuale quantificazione dei danni subiti, tramite l’attivazione di addestrati “gruppi tecnici” e modificando radicalmente la gerarchizzazione degli strumenti normalmente utilizzati per la pianificazione urbana e territoriale. I Piani Particolareggiati di Ricostruzione vengono pertanto svincolati e inseriti in un quadro di revisione e aggiornamento dei Piani Regolatori Comunali, inserendo in via sperimentale i Piani Comprensoriali di Ricostruzione e sospendendo, per i Comuni più colpiti e diversamente danneggiati, gli effetti derivanti dall’entrata in vigore del Piano Urbanistico Regionale, approvato nel settembre del 1978. I centri storici più colpiti sono risultati Gemona del Friuli e la vicina Venzone, vere “capitali del terremoto”, anche per le immagini che le ritraevano, quotidianamente diffuse dai media in tutto il mondo. Ma gli effetti devastanti non hanno risparmiato molti altri centri abitati, sia della zona montana che pedemontana e collinare della regione. Passata l’emergenza e la prima fase di riassetto della struttura produttiva, le immense esigenze di ordine sociale ed economico lasceranno progressivamente il campo a problemi più strettamente urbanistici ed architettonici e di organizzazione complessiva dei cantieri aperti dall’opera di ricostruzione. Scelte che punteranno al ripristino della struttura insediativa diffusa e alla ricostruzione dei paesi “com’erano e dov’erano”, salvo piccole e modeste eccezioni. Una grande spinta all’autonomia e alla concretezza nell’affrontare i mille problemi della ricostruzione è sicuramente venuta dalla riconosciuta esperienza e abilità dei friulani quale popolo
di muratori, carpentieri e falegnami, divenuti con gli anni capimastri e imprenditori; da generazioni abituati a girare il mondo in cerca di “fortuna”. Non tutto ciò che è stato fatto nel processo ricostruttivo può essere preso ad esempio: la comprensibile fretta, le mutate esigenze abitative e le radicali trasformazioni sociali, maturate nel primo decennio post-terremoto, hanno fatto pagare un “prezzo”, che solo oggi, a distanza di molti anni, è possibile riconoscere e valutare. È in tale logica che si possono inquadrare e comprendere meglio le pungenti polemiche sulla ritenuta inadeguata attenzione verso la salvaguardia del patrimonio storico-artistico e culturale del territorio colpito e contro le facili e indiscriminate demolizioni. Dove esisteva una adeguata documentazione e una forte identità storica dei luoghi e dove furono messi in sicurezza i resti degli edifici danneggiati è stato possibile realizzare degli interventi sistematici che hanno portato a buoni risultati e in alcuni casi a risultati eccellenti. Oltre ai due centri storici di Gemona e di Venzone, va ricordata la ricostruzione di Osoppo e il recupero del centro storico di San Daniele del Friuli. La riedificazione, da calcoli effettuati con opportune attualizzazioni, è costata alla collettività nazionale e internazionale 19.000 miliardi di vecchie lire, anche se un calcolo definitivo potrà essere compiuto solo dopo gli ultimi interventi di recupero dei più problematici siti di alcune chiese e castelli. Si può ragionevolmente sostenere che con il castello di Colloredo di Monte Albano, uno dei luoghi simbolo della storia e della cultura friulana, la cui realizzazione è programmata per il prossimo quinquennio, potrà dirsi finalmente conclusa l’opera di ricostruzione del territorio devastato e sarà consegnato alle nuove generazioni un Friuli, forse più povero di arte e di storia, ma più sviluppato e più consapevole della propria identità e della propria autonomia. Non si possono comunque dimenticare che tra i “figli” del post-terremoto vi sono certamente il completamento di alcune importanti infrastrutture stradali e ferroviarie di livello internazionale e la realizzazione di opere civili, oltre alla nascita dell’Università degli Studi di Udine e il più moderno ed efficiente servizio di Protezione Civile d’Italia.
L’apprezzamento unanime della realizzata opera di ricostruzione è stato espresso, a nome dell’intera collettività nazionale, dalla Presidenza della Repubblica, consegnando nel 2003 a tutti i Sindaci dei Comuni colpiti dal terremoto la “Medaglia d’Oro al Valore Civile”, quale segno perenne della riconoscenza e della stima per il buon lavoro compiuto.